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  • Per i  giovani, Prima i Nostri!

    Per i giovani, Prima i Nostri!

    Credetemi quando dico che per i giovani oggigiorno il mercato del lavoro in Ticino è poco attrattivo: molti miei coetanei si vedono costretti una volta terminati gli studi universitari a trasferirsi fuori cantone o addirittura all’estero per trovare un buon posto di lavoro con possibilità poi di sviluppare la carriera. E la situazione non è diversa nemmeno per gli apprendisti: spesso terminata la loro formazione questi non vengono assunti dal datore, perché preferisce assumere frontalieri meno cari, e tra la possibilità di guadagnare di meno in Ticino o andare fuori cantone e guadagnare qualcosa di più diversi giovani scelgono purtroppo quest’ultima possibilità. Dico purtroppo perché sempre di più si va ad accentuare quel fenomeno sociale che è la fuga di capitale intellettuale e manodopera ticinese, cresciuta e formata in Ticino ma che per le precarie condizioni del nostro mercato del lavoro si vede quasi costretto ad abbandonare il cantone per trovare condizioni migliori. Non parlo di coloro che, per arricchire le loro esperienza formativa, si spostano fuori cantone e poi fanno ritorno, ma di coloro che per motivi legati al lavoro non tornano più. I pochi che rimangono sono confrontati con problemi sociali non indifferenti: quale giovane metterebbe su famiglia con uno stipendio di 2000 franchi al mese, senza garanzie per un futuro o per una carriera migliore? Quale giovane rimarrebbe in Ticino a lavorare con queste precarie condizioni del mercato del lavoro? E poi ci si lamenta che non si trovano giovani formati per alcuni lavori, ma se a questi si offre uno stipendio poco attrattivo e le condizioni sociali siano misere è normale che questi restino o si trasferiscano fuori cantone…

    Siamo finiti in una spirale senza apparente fine, dove il libero mercato ha portato a una situazione precaria, con dumping salariale, contratti in nero, preferenza straniera, poca riconoscenza del valore del lavoro e un alto tasso di disoccupazione. Ma come porre un freno a tutto ciò? Come aiutare noi giovani rendendo di nuovo attrattivo il mercato del lavoro ticinese? Una soluzione c’è e si chiama “Prima i nostri”.

    L’iniziativa lanciata nel 2014 dall’UDC Ticino e che sarà in votazione il prossimo 25 settembre chiede di inserire nella costituzione cantonale alcuni principi già stabiliti dalla votazione del 9 febbraio. Grazie alla preferenza indigena prevista dalla costituzione i datori di lavoro sarebbero obbligati, a parità di condizioni, ad assumere un residente. In questo modo si amplierebbero così le possibilità lavorative dei giovani (e non solo) e si andrebbe ad attutire il problema del dumping salariare, dal momento che il datore di lavoro non sarà più libero di scegliere il frontaliere o il padroncino perché lo può pagare di meno. Inoltre approvando l’iniziativa si va a vietare l’effetto sostituzione, ossia il licenziamento di un ticinese per l’assunzione di un frontaliere meno caro e si andrebbe a limitare le imposizioni di stati stranieri sul nostro mercato interno, regolando di conseguenza gli accordi commerciali che verranno presi. In questo modo non solo si va a tutelare il lavoro del ticinese nel suo cantone, ma si vanno a migliorare le condizioni del nostro mercato di lavoro, rendendolo più attrattivo e fermando l’emorragia di giovani verso la Svizzera interna e l’estero.

    Per aiutare i ticinesi, per incentivare noi giovani a rimanere o ritornare in Ticino dopo il diploma, per ridare dignità a coloro che oggi lavorano in condizioni salariali precarie, il prossimo 25 settembre vi invito ad accettare l’iniziativa “Prima i nostri”!

    Diego Baratti

    Vicepresidente Giovani UDC Ticino

  • Congedi paternità, un valore aggiunto alla famiglia

    Congedi paternità, un valore aggiunto alla famiglia

    Nei Paesi scandinavi, la questione dei congedi paternità è ormai una realtà consolidata da decenni. Più della metà dei padri di famiglia negli ultimi vent’anni ne ha approfittato. In Svezia i genitori hanno insieme un totale di 480 giorni di congedo, con un minimo di 60 per entrambi; il resto se lo spartiscono tra di loro. La Danimarca che propone tale congedo già da anni offre due settimane aggiuntive agli uomini e 14 alle donne dopo la nascita del figlio, oltre a 32 aggiuntive da spartirsi. Più a ovest la Norvegia dal 1993 garantisce 12 settimane di congedo ai (neo) papà. E da noi invece? Niente, anzi i padri devono chiedere giorni di libero, tolti dalle loro vacanze, per poter permettersi di stare a casa almeno qualche giorno per accudire il figlio appena nato. Con un bambino nato da poco ed una madre/moglie affaticata dalla gravidanza, due settimane di congedo paternità mi sembrano il minimo, sia per accudire un bebé che per assistere la propria moglie. Per non parlare poi della differenza che hanno coloro che lavorano per il settore privato rispetto a quelli del settore pubblico e/o statale. Questi ultimi beneficiano infatti della possibilità di un congedo paternità di diverse settimane, avendo così la possibilità di stare accanto al nuovo arrivato in famiglia. E l’operaio neo papà, dipendente di una PMI? Ebbene è costretto a prendere qualche giorno di ferie. Per un Paese come il nostro, all’avanguardia su molti aspetti, il concetto di famiglia sta ormai svanendo, tant’è che tra i giovani si preferisce la vita professionale a quella famigliare. I nostri valori secolari legati anche alla famiglia, alla base della nostra società, stanno morendo pian piano. E con 97 voti contro 90, lo scorso aprile, una buona parte del Consiglio Nazionale questo concetto non l’ha capito.

    Economicamente parlando? A mio parere, il problema non è come trovare il denaro per finanziare i congedi paternità, ma bensì, è una questione di gestione dei fondi della Confederazione. Il denaro c’è, basta saperlo gestire correttamente. È bizzarro come ad esempio la Confederazione riesca a trovare il denaro per raddoppiare il budget per la questione “asilanti”, per poi addirittura portarlo ad una cifra leggermente inferiore per l’anno 2018 a quella attuale concessa all’esercito, all’incirca 3 miliardi.

    Ecco perché bisogna sostenere l’iniziativa. Oggi come oggi un uomo che diventa papà riceve lo stesso numero di giorni liberi retribuiti come per un trasloco: un giorno!

    Daniel Grumelli, Presidente Giovani UDC TI, GdP del 30.08.2016

  • Marchesi: “Un’ancora di salvezza per il mondo del lavoro”

    Marchesi: “Un’ancora di salvezza per il mondo del lavoro”

    Il mondo del lavoro in Ticino, checché ne dicano i vari Maggi dell’Ire, le associazioni economiche e il Ministro Vitta, si è deteriorato tanto da condizionare la vita di molti ticinesi. Chi abita in questo cantone viene sempre più spesso sostituito dalla manodopera estera perché può permettersi di guadagnare la metà, a volte anche meno. Molte aziende italiane insediate in Ticino hanno portato un sistema di fare impresa che non ci appartiene perché fondato sulla speculazione. Aziende che cercano esclusivamente personale italiano sono all’ordine del giorno. Ciò ha causato un aumento importante dei ticinesi in disoccupazione e assistenza, che sono costretti a far capo allo Stato per vivere. In un Paese benestante come la Svizzera tutto ciò è irreale. Al fine di proporre una soluzione concreta ed efficace a questa deriva del mercato del lavoro, l’UDC ha lanciato un’iniziativa denominata «Prima i nostri» che verrà sottoposta in votazione popolare il prossimo 25 settembre. L’iniziativa si basa su tre pilastri fondanti:
    1. Reintroduzione del principio della «preferenza indigena»:
    A parità di competenze il datore di lavoro sarà obbligato ad assumere un lavoratore residente, evitando altresì l’effetto di sostituzione. Un’azienda alla ricerca di un nuovo collaboratore dovrà dimostrare che le ricerche effettuate, in collaborazione con i vari uffici del Cantone, non avranno fornito dei candidati ticinesi. Solamente a questo punto il Cantone potrà valutare la reale necessità per il rilascio di un permesso G. I frontalieri continueranno ad essere impiegati solo dove realmente necessario
    2. Lotta contro la pressione al ribasso sui salari (dumping salariale):
    È necessario evitare che il lavoratore ticinese sia sottoposto al ricatto «o accetti una diminuzione del salario oppure sei licenziato». Attraverso la preferenza indigena la pressione sui salari dei ticinesi diminuirà in modo importante, perché l’offerta di manodopera estera a disposizione delle aziende diminuirà per il fatto di poterne attingere unicamente come alternativa alla mancanza di ticinesi.
    3. Reciprocità con gli Stati esteri:
    Applicazione dei trattati internazionali in modo tanto restrittivo quanto restrittiva è l’applicazione dei medesimi trattati internazionali da parte degli Stati esteri, in particolare dell’Italia. È inammissibile che qualsiasi artigiano, impresario o lavoratore italiano possa ottenere un permesso di lavoro nel Canton Ticino facendo due clic su internet, mentre le aziende ticinesi, per svolgere un lavoro in Italia debbano affrontare un infinità di burocrazia per vedersi infine negata l’autorizzazione. Nel campo finanziario, mentre banche e commercialisti italiani si muovono liberamente in Ticino, gli stessi operatori svizzeri sono impediti di lavorare in Italia.
    Il Parlamento verrà in seguito chiamato ad elaborare una legge d’applicazione fedele all’articolo costituzionale. La legge attuale ha dimostrato tutti i suoi limiti, per questo motivo è il momento di cambiarla. PLR e PPD hanno elaborato un controprogetto che permette loro di pulirsi la coscienza, ammettendo che i problemi esistono, ma non proponendo una soluzione efficace. Il controprogetto, ad esempio, non prevede l’obbligo della preferenza indigena, ma la auspica solamente. A cosa serve dunque? A nulla. Per questo motivo invito i ticinesi a non farsi infinocchiare da chi – con l’aiuto della sinistra – ha fatto di tutto per combattere l’iniziativa federale «Stop all’immigrazione di massa» nel 2014 e che ora applica lo stesso concetto del «non si può cambiare». Cambiare si può, ma unicamente votando «Prima i nostri».
    Piero Marchesi, CdT del 27 agosto 2016
  • Lara Filippini: “Caro Vescovo ti scrivo…”

    Lara Filippini: “Caro Vescovo ti scrivo…”

    Eccellenza Reverendissima,

    dopo diversi giorni di profonda riflessione – non senza difficoltà – ho scelto di scriverLe questa lettera aperta.

    Temo che quanto andrò chiedendoLe, purtroppo, non avrà un seguito, ma qualcosa dentro di me mi spinge a dire che sono momenti come questi dove non si può tacere. Per onestà e trasparenza però, voglio confidarLe che non sono una fedele per così dire “praticante” e i perché potrebbero essere oggetto di un’altra lettera.

    Io credo – mi perdoni l’ardire di tale paragone – che il Vescovo sia un po’ come un grande faro in quel mare in tempesta chiamato Vita. Per il clero l’Ordinario indica con la Luce tra le tenebre la giusta via, affinché accompagni i fedeli in un percorso di fede non sempre facile. I fedeli, invece, vi rivolgono lo sguardo sicuri che grazie alle Sue indicazioni chi ha il compito di accompagnarli in un porto sicuro siano saldi nel loro dovere.

    Questo faro ha molti compiti importanti, ma credo che il più grande di tutti i suoi compiti sia quello di avere cura dei fedeli più innocenti, dei nostri bambini, sanzionando quei preti che smarriscono la via indicata dalla Luce, violando la loro innocenza. Le scritture, citando direttamente Gesù Cristo, sono chiare: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare” (Matteo 18,6). Questi eccelsiastici chiamiamoli quindi con il loro nome, invece di usare altri termini, insabbiare o omettere certe verità: sono pedofili.

    Se questo faro, che è il Vescovo, smarrisce la via, difendendo un pedofilo – con le parole e i fatti – come si può pensare che i fedeli abbiano ancora Fede in chi dovrebbe guidarli? Sono assolutamente certa che vi sono molti bravi preti che svolgono con umiltà e devozione il loro compito. Le mele marce sono però quelle che bisogna eliminare senza se e senza ma dal cesto, perché altrimenti anche coloro che compiono il loro dovere saranno ingiustamente messi nello stesso calderone.

    No, non si può veramente pensare che spostandoli in altra Parrocchia cambieranno i loro impulsi sessuali. È come cambiargli vaso di marmellata in cui intingere le dita. È irrealistico oltre che irresponsabile.

    Lo so, la Chiesa predica perdono e comprensione anche per i peggiori crimini, ma questo è un crimine che nemmeno tra coloro che commettono gli atti peggiori è tollerato, del resto anche le Scritture sono perentorie. Un’anima indifesa (e che non ha mezzi per difendersi) violata è una ferita profonda e sanguinante per ognuno di noi, ma per chi crede e vive in modo profondo e pieno la propria fede, sapere che colui o coloro cui ha affidato i propri figli – affinché li cresca nella fede in Cristo –  ha anche abusato di loro la ferita è doppia, fa ancora più male.

    Se poi colui che dovrebbe eliminare queste mele marce – il Vescovo – ha preferito difendere o sottacere invece di agire contro questi mostri, è come se si gettasse deliberatamente del sale grosso sulla ferita aperta.

    Penso a quelle famiglie che ora si trovano lacerate dal dolore per non aver saputo capire che cosa stesse accadendo, insultate nuovamente perché ora scoprono attraverso le testuali parole dell’allora “vescovo” Grampa, riportate da varie testate giornalistiche ticinesi sul caso del prete appena condannato in questi giorni – “sapevamo che il sacerdote aveva delle tendenze vergognose… ma non potevo ergermi sopra la giustizia civile. Ho deciso di trasferirlo in un’altra parrocchia”.
    Che cosa dovrebbero pensare i fedeli?

    Purtroppo non è nemmeno la prima volta che ha preso posizione in merito a questi atti vergognosi.
    Credo si ricorderà del caso del prete di Gordola nel 2004. Una ragazzina molestata via messaggi dal prete che aveva “obiettivi” ben precisi. La madre, messa al corrente dalla figlia, ebbe la prontezza di avvisare la polizia che lo arrestò, cogliendolo sul fatto. Il “nostro” Vescovo di allora, tuonò dal pulpito che “si sarebbe dovuto intervenire in altro modo invece di costruire una trappola usando adolescenti come esca. Mi domando, alla luce dei fatti finora appurati, se non si sarebbe dovuto informare e chiedere l’intervento del vescovo prima di rivolgersi ad altri”.

    E ora, quest’ultimo caso citato poc’anzi in cui sostiene tutto il contrario. No, per me e per molti altri non è stato quel faro che indica la Luce, che protegge gli innocenti; trovo abbia semplicemente fallito nel suo compito più alto.
    Chiedo dunque a Lei, Eccellenza Reverendissima, che dalla Sua nomina ha mostrato umanità e compassione, ma anche fermezza di fronte a numerose scottanti tematiche che prenda pubblica posizione, dando chiare tracce, come indicato sia da Papa Benedetto XVI sia da Papa Francesco, sul tema della pedofilia. Le chiedo che d’ora innanzi quando saprà di uno di questi sacerdoti dalle “tendenze vergognose”, se confermate nei fatti, di inviare alla Congregazione preposta a Roma, la richiesta di ridurli allo stato laicale (anche per coloro che sono già stati condannati), rimettendoli al braccio secolare affinché siano condannati secondo le leggi vigenti.

    Siate fermo e deciso, non basta sostenere che sono vicende di profonda tristezza, ci vuole azione, ci vogliono fatti e che questi siano resi pubblici! Sì, perché tutto ciò fa male alla Chiesa, fa male alla maggioranza dei sacerdoti che quotidianamente s’impegnano con passione e trasparenza nel loro mandato, fa male ai fedeli che vivono con trasporto la propria Fede, fa male ai fedeli la cui Fede vacilla, fa male, perché sempre più persone si allontanano dalla Fede cattolica anche e soprattutto per (in)decisioni del genere.

    Meno la Chiesa agirà in questo campo in maniera chiara e diretta e più andremo incontro a un’erosione non solo di fedeli, ma anche delle radici e delle fondamenta sulle quali si è costruita la società occidentale, la quale purtroppo sta già scricchiolando da tempo. Siate quel faro di Luce che io sono convinta voi siate, mostrate a tutti i cittadini credenti e no di voler sradicare quest’abominio.
    Lara Filippini
  • Le coppie omossessuali e i figli in adozione

    Le coppie omossessuali e i figli in adozione

    «L’amore vince sempre». No, non siamo più nel XIX secolo, durante la corrente del Romanticismo, quando si sentiva la necessità di staccarsi dalla razionalità dell’Illuminismo per poter esplorare l’irrazionale: i sentimenti, la follia, il sogno, le visioni. Oggi questa frase – caricata di un significato eccessivo – è usata e abusata per sdoganare e giustificare qualsiasi cosa che vada a sovvertire le leggi sulle quali poggiava e poggia ancora la nostra società.
    Oggi stiamo vivendo dei cambiamenti radicali, o meglio, mutamenti di un sistema di vita che si credeva ben definito. Al momento penso che ci si trovi di fronte a una perdita di quei punti di riferimento ai quali le persone ricorrevano per operare delle scelte: il risultato è un forte senso d’insicurezza, ma anche d’instabilità, con la conseguenza di grandi scontri su temi che un tempo non sarebbero nemmeno stati messi in discussione. Certezze che via via stanno venendo sempre meno, e ciò grazie a una smodata deregolamentazione dei rapporti sociali, dove i desideri individuali sono messi al centro come in un ricco buffet traboccante di squisitezze, dal quale poter attingere in modo sfrenato e senza regole.
    Ora ci troviamo di fronte a due importanti temi: matrimonio e figli.
    Il matrimonio – e lo stabilisce il nostro Codice civile – è tra un uomo e una donna, ma, con l’evolversi della società, si è reso necessario regolamentare anche i rapporti tra coppie omosessuali; infatti, il popolo in votazione nel 2005 accettò l’unione domestica registrata. Sebbene durante la campagna di voto i favorevoli alla LUD abbiano giurato a più riprese di non voler equiparare il tutto al matrimonio e, soprattutto, che non avrebbero mai richiesto di poter adottare dei bambini, ora in realtà questo sembra non bastare più.
    Il matrimonio, di fatto, è l’istituzione che dà corpo al patto tra l’uomo e la donna per la procreazione delle successive generazioni; esso è il fondamento della famiglia, in altre parole crea un rapporto di filiazione diretta tra i suoi membri. In nome della lotta alla discriminazione e in nome di un’uguaglianza (già, ma quale?) non possiamo dare i medesimi diritti a tutti coloro che sostengono di amarsi (alla stessa stregua perché non tra uomo e animali?), perché nel caso delle coppie omosessuali per soddisfare il desiderio di filiazione si dovrà forzatamente ricorrere a un «mercato» che produca l’oggetto desiderato. La paura – o forse la certezza? – è che arriveremo, come in Francia, a proporre la GPA (gestazione per altri), con la conseguenza che, per esempio, una donna venderà il proprio corpo – dietro compenso, perché magari in difficoltà finanziarie – per «produrre» il bambino che tali coppie non potrebbero avere naturalmente. In Francia, per esempio, è molto evidente questo business; infatti, a fronte di 25’000 coppie eterosessuali atte all’adozione, ci sono «solo» 2’000 bambini adottabili, per cui con la legge Taubira si è sdoganato un nuovo triste commercio da cui attingeranno le coppie omosessuali. Senza contare che molti Paesi hanno bloccato le adozioni a fronte dell’accettazione di questa legge. Una società nella quale viene messo al centro tutto ciò che può permettere di soddisfare i desideri individuali, si può definire più umana? No, non per forza si può dire più umana, proprio perché essa corre il grande rischio di generare una perdita di senso del bene comune, privando i nuovi nati non solo di una madre e di un padre, ma delle proprie origini.
    Troppo facile etichettare coloro che non seguono «l’onda dell’amore» come degli omofobi e dei razzisti. Qui si dimentica che il ruolo dei genitori non è solo il dare amore ai propri figli. Non si può ridurre ai soli aspetti educativi e affettivi questo legame, perché tale relazione è un importante presupposto per la formazione dell’identità. Parlare dunque di «diritto al figlio» è una strumentalizzazione inaccettabile. No, non è proprio questione di omofobia, ma di aver ben presente che quest’onda tiene conto solo di desideri individuali di alcuni adulti, ma non del benessere dei bambini. I bambini non si comprano, non sono oggetti volti a soddisfare questi desideri.
    Per la serenità di queste creature, io sosterrò il referendum contro l’adozione da parte di coppie registrate, perché ritengo che ogni bambina o bambino debba avere diritto a conoscere completamente le proprie origini e ad avere un padre e una madre.
    Lara Filippini, CdT, 3 agosto 2016
  • Con “Prima i Nostri” più arrosto e meno fumo!

    Con “Prima i Nostri” più arrosto e meno fumo!

    Quando si tratta di difendere il proprio orticello lombardo, i sindacalisti sono capaci pure di rinnegare e occultare l’evidenza. Prova ne è l’ultima presa di posizione da parte di Fabrizio Sirica che si firma “vicepresidente PS Ticino” ma parla da sindacalista UNIA.

    I frontalieri non sono sicuramente i principali colpevoli dell’attuale stato del mercato del lavoro ticinese, ma possiamo tranquillamente parlare di una loro complicità indiretta. Se sin dall’inizio avessero fatto valere il loro diritto a uno stipendio “ticinese” e non “lombardo”, non ci troveremmo oggi a discutere di loro, della libera circolazione e d’iniziative popolari come “Stop all’immigrazione di massa” e “Prima i Nostri”. Invece, hanno preferito accettare salari ribassati che permettono loro di vivere comunque una vita in Italia più che dignitosa e che agli occhi di gran parte dei datori di lavoro in Ticino sono più appetibili dal punto di vista economico.

    Pecunia non olet, si suol dire, e questo vale anche per loro. Ed è qui che entra in gioco “Prima i Nostri”. L’iniziativa richiede infatti che venga reintrodotto il principio di “preferenza indigena” e che sia d’obbligatorietà generale e, soprattutto, permanente. Niente clausole di salvaguardia, bottom up o le ennesime misure d’accompagnamento. In questo modo, per quei settori dove sul territorio vi è la disponibilità di profilli professionali non sarà più possibile scegliere un lavoratore proveniente dall’estero.

    Questo, accompagnato da un articolo costituzionale specifico che vieta di fare “dumping salariale”, permetterà ai salari ticinesi di tornare a livelli dignitosi. Se un datore di lavoro non può assumere frontalieri perché ci sono residenti disponibili, e non può asserire di non averli trovati perché non vogliono accettare un salario da fame, va da sé che i ticinesi riacquistano quel potere contrattuale nei confronti del padronato che persero dal 2002, quando entrò in vigore la libera circolazione. Una semplice misura protezionistica volta a tutelare realmente i lavoratori residenti che non chiedono altro che poter tornare o iniziare a lavorare, rimettendo ordine nel mercato del lavoro ticinese. Obbiettivo che, in 12 anni di misure d’accompagnamento, non si è mai raggiunto.

    Oltre a questo, “Prima i Nostri” è la risposta più adatta a al fenomeno contrario che sta prendendo piede in Ticino, laddove i frontalieri hanno raggiunto posizioni dirigenziali, quella della preferenza ai propri connazionali o meglio definibile “preferenza frontaliera”. In questo contesto non c’è contratto collettivo, contratto normale di lavoro o minimo salariale che tenga, se un dirigente frontaliero vuole assumere solo frontalieri, pagandoli pure ciò che è dovuto, non si può fare nulla. Solo obbligando i datori di lavoro a svolgere la loro ricerca di profili sul territorio prima che all’estero, possiamo tutelare la modopera residente e garantire la miglior prestazione sociale in assoluto, il lavoro.

    Ecco perché della massima importanza che il prossimo 25 settembre il Popolo ticinese accetti l’iniziativa “Prima i Nostri” e respinga l’inutile controprogetto.

    Alain Bühler, Vicepresidente UDC Ticino

  • Addio cara e amata sovranità nazionale

    Addio cara e amata sovranità nazionale

    Alla fine del XIII secolo i rappresentanti di Uri, Svitto e Untervaldo giurano reciproca fedeltà tramite il Patto federale del Rütli, nell’estate del 1291. Ebbene, sette secoli dopo, quella sovranità e indipendenza, che li portò a difendere le proprie terre, le proprie case e le proprie libertà, sembra essere stata dimenticata in qualche cassetto di Palazzo federale.
    Nel 1992 il popolo svizzero fu chiamato a pronunciarsi all’adesione dell’allora Spazio economico europeo. Il 50,3% disse no. I contrari guidati da Christoph Blocher vinsero contro un Consiglio federale che dichiarò tale risultato come la fine della democrazia nel nostro Paese. Come può un organo esecutivo fare certe dichiarazioni? La cosa sorprendente è che l’economia nazionale, a differenza di quello che gli intellettuali prevedevano, ha continuato a crescere, portandoci oggi ad essere una delle economie più all’avanguardia del mondo, la ventesima con un PIL di 632 miliardi di dollari. Certamente non si può negare che se non fosse per gli accordi commerciali con l’UE, oggi non saremmo a questi livelli di competitività. Ma è anche vero che se non fosse per l’indipendenza monetaria e una politica economica e finanziaria non europea, che incentiva e che non penalizza le aziende, non saremmo nella situazione attuale. Ma come è possibile andare avanti con un Governo federale soggetto al volere di Bruxelles? Poco più di due anni fa, la maggioranza del popolo chiamato alle urne disse sì al 9 febbraio, stop all’immigrazione di massa. Oggi, poco e niente è stato fatto per attuare l’iniziativa, anzi, si fa di tutto per evitare un’attuazione poiché il duo Juncker-Sommaruga non la digerisce. E come se non bastasse, qualche giorno fa è stata approvata la libera circolazione con la Croazia. E ora i cittadini turchi non dovranno più richiedere un visto per entrare nel nostro Paese. Stiamo parlando di uno Stato extraeuropeo! Turchia che una settimana fa ha avuto la sfrontatezza di chiedere alla città di Ginevra di togliere uno striscione non gradito dal Governo di Ankara.
    Vi sono Paesi membri dell’Unione europea come Ungheria, Slovacchia e Polonia dove la sovranità nazionale è molto più presente che nella nostra bellissima Svizzera, pur restando noi fuori dall’UE. E pur avendo ritirato, finalmente, la domanda di adesione a Bruxelles. Stati dell’Europa centrale che, viste le difficoltà del centralismo europeo, han deciso di agire per il bene del proprio Paese, del proprio popolo. E noi invece?
    Daniel Grumelli, Presidente Giovani UDC TI, CdT del 02.06.2016
  • Mezzi pubblici più presenti nei quartieri

    Mezzi pubblici più presenti nei quartieri

    Ogni anno, nel solo Comune di Lugano, le persone che usufruiscono del servizio pubblico cittadino non sono poche. Nel 2014 con la TPL han viaggiato ben più di 13 milioni di utenti. Figuriamoci se a questa cifra si aggiunge quella dell’Autopostale e delle ARL.
    Gran parte dell’offerta nel centro cittadino copre l’intera giornata, con orari a cadenza regolare, fatta eccezione per le ore notturne ovviamente.
    Nell’ultimo decennio però, la Città ha visto espandere il suo territorio, portando ad un aumento dei quartieri di periferia. Zone suburbane, nelle quali il servizio di trasporto pubblico è decisamente più scarso rispetto al centro, sia per quanto riguarda il numero di corse giornaliere, sia per la tabella degli orari, a dir poco ridicoli.
    Carona, i quartieri del Pian Scairolo, tutta la Val Colla e il bellissimo Borgo di Brè e Ruvigliana, dopo le 19 non hanno più corse con il centro cittadino. Il punto è che in queste zone abitano più di 15.500 abitanti, ovvero il 22% dei residenti a Lugano.
    Com’è possibile che negli ultimi anni, la città abbia voluto mostrare una piccola inclinazione al trasporto sostenibile, per esempio l’installazione di stazioni per biciclette pubbliche o quelle per la ricarica di veicoli elettrici, dimenticando però il potenziamento del servizio di trasporto pubblico attualmente saturo, per non parlare appunto dell’isolamento della periferia comunale. Sono centinaia, se non migliaia, gli abitanti chiamati a lavorare prima del sorgere dell’alba. Molti, poiché non automuniti, devono raggiungere a piedi la stazione per raggiungere le zone industriali del Vedeggio o di Mendrisio. O semplicemente camminare per una buona mezzoretta nelle vie ancora buie della città, poiché le prime corse di bus partono alle sei del mattino. Anticipare l’inizio, credo sia fattibile. Oltre Gottardo, città della capienza di Lugano o addirittura più piccole, offrono un servizio di trasporto pubblico già ben prima delle 6. La politica cittadina ha negli ultimi anni cercato di togliere dalla strada il maggior numero di veicoli, mettendo in atto diverse misure. Ha voluto cambiare il piano viario cittadino, creando non pochi problemi ai conducenti. Ogni giorno son più di centomila le persone che vengono a Lugano a lavorare e la maggior parte di esse non si sposta coi bus o a piedi.
    Il primo passo sarebbe quello di migliorare un sistema di trasporti pubblici cittadino, attualmente di buona qualità, ma saturo in certe zone e praticamente inesistente in altre.
    Daniel Grumelli, CdT il 25.03.2016
  • La retribuzione dei parlamentari

    La retribuzione dei parlamentari

    Quanto guadagna un parlamentare? Il regolamento della Confederazione prevede una rimunerazione annua di 26.000 franchi per i lavori preparatori, una diaria di 440 franhi per i giorni di presenza nel Consiglio e nelle varie commissioni, e un’idennità per spese di personale e materiali di 33.000 franchi. Calcolando che i parlamentari si ritrovano quattro volte l’anno per sessioni di tre settimane (440 fr x 15 giorni x 4 volte l’anno = 26.400 fr) senza contare l’eventuale sessione extra, ma contando che ogni parlamentare trascorre ulteriori 30/50 giorni a Berna per le commissioni (440 fr x 50 giorni = 22.000 fr) e sommando la remunerazione annua (26.000 fr) e l’indennità di spese (33.000 fr), un parlamentare svizzero che partecipa a tutte le sedute del Parlamento e delle commissioni guadagna circa 107.400 fr, ossia 8.950 fr al mese. A questo stipendio vanno inoltre aggiunti i rimborsi spese, viaggi, alloggio e pasti, portando così un parlamentare a guadagnare dai 130.000 ai 150.000 franchi l’anno. Calcolando che ci sono 246 deputati la Confederazione spende circa 36,9 milioni di franchi l’anno. Nei giorni retribuiti non sono considerate tutte le giornate preparatorie, i dibattiti, le riunioni del gruppo parlamentare e del partito. Si tratta dunque di uno stipendio modesto, per deputati che fanno il possibile per la nazione. Ciò è possibile grazie al fatto che il Parlamento è di milizia: la maggior parte dei deputati è attiva professionalmente, nonostante l’enorme carico di lavoro che la funzione comporta. Ed è un bene che sia così. Lavorando, non solo il deputato può trarre conoscenze dalla sua esperienza professionale, ma è in un qualche modo è anche più vicino al popolo. Se così non fosse si andrebbero a creare casi come quelli dell’Europarlamento, con deputati praticamente sempre assenti che percepiscono delle superpaghe: infatti un eurodeputato percepisce 8.000 euro al mese, oltre che varie indennità stratosferiche (di viaggio, spese personali, generali, giornaliere, per il personale) per un totale di circa 17.000 euro al mese (ossia circa 18.500 franchi).

    Diego Baratti, CdT, 28 settembre 2015